"Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla". Ma è sempre così?
Chiunque
pensi di essere titolare di diritti sociali esigibili, garantiti dalla
Costituzione e tutelati dallo Stato, molto presto, dovrà ricredersi.
Con l'approvazione dei primi decreti attuativi delle linee guida disposte dalla Legge delega n.106 del 2016
si sancisce, ufficialmente, il confinamento dello "Stato sociale" in
un'area di residualità e la sua progressiva sostituzione con il
modello,di matrice anglosassone, del "welfare market".
Le ragioni, condivise dalle forze politiche, economiche, sociali e
culturali che hanno promosso la riforma sono semplici, chiare e
univoche.
Come precisato dal ministro Poletti e dal sottosegretario al Lavoro Bobba "L'ordinamento
pubblico, in tutte le sue articolazioni territoriali ed istituzionali,
non può più occuparsi in regime di titolarità esclusiva e nemmeno
primaria, di assistenza, istruzione, salute, sostegno all'occupazione...
semplicemente perché non ha, in autonomia, la disponibilità delle
risorse economiche e finanziarie indispensabili per farlo". [...]
Non
potendo finanziare gli interventi usando la leva del debito e
risultando insufficienti le tradizionali misure di natura fiscale
(agevolazioni tributarie in primis) disposte a favore dell'universo "no
profit", l'unica via percorribile risulta essere:
"attrarre capitali abbassando ogni possibile barriera all'impresa", ovvero... puntare tutto sull'edificazione della cosiddetta "terza colonna" del settore: il "for profit".
"Privatizzare
il sociale... significa guadagnare, nel breve periodo il 10% di spesa
sociale in termini di innovazione ed efficienza... contribuire al
risanamento dei conti pubblici e al rilancio competitivo del
sistema-paese attraverso un raffreddamento delle dinamiche salariali...
nonché adeguare le esigenze degli utenti alle necessità del mercato,
realizzando, anche in ambito sociale e sanitario, le indispensabili
economie di scala...[...]
L'Art 55 del TU, a buon titolo, può
essere considerata, la chiave di volta su cui sarà eretto il nuovo
sistema. Esso prevede, niente di meno che...
"il
coinvolgimento in forma di partenariato dei soggetti privati (enti no
profit e imprese) nella programmazione (e nella gestione) di TUTTE le
FUNZIONI PUBBLICHE (sanità, assistenza,
istruzione, formazione, lavoro, e, se le parole hanno un senso
preciso... anche la giustizia, la sicurezza, l'ordine pubblico...)
Ciò
non avviene modificando formalmente l'ordinamento giuridico
costituzionale né quello civile (strada impervia e politicamente
rischiosa,come insegna il referendum del 4 dicembre 2016) bensì
instaurando una sorta di percorso normativo triadico... cioè affiancando
al Codice Civile e a quello sugli Appalti il nuovo "Testo Unico sul III settore".
In
questo modo, lasciando formalmente inalterato il quadro gerarchico
delle fonti e, allo stesso tempo, regolamentando parte rilevante della
disciplina di dettaglio tramite il ricorso ad "atti normativi non legislativi", in quanto tali, svincolati da ogni istanza di controllo parlamentare (emblematici i due temi relativi all"aggiornamento dell'elenco delle attività dell'impresa sociale" e alla definizione del tema dell "partecipazione dei lavoratori" alla gestione dell'impresa) si finisce per
"innestare sul tronco vecchio quel ramo nuovo" che, progressivamente, muterà' l'intera pianta.
E
si tratta di una pianta molto ambita perché promette di portare frutti
rigogliosi! Il "terzo settore", infatti, secondo quanto riportato dai
dati Istat del 2011, movimenta fra i 60 e i 70 miliardi di euro all'anno
(6-7% del PIL.), occupa, fra volontari (500.000), lavoratori dipendenti
(700.000), collaboratori (300.000), circa 1 milione e mezzo di
addetti.
I dati prodotti dagli analisti finanziari internazionali
parlano chiaro; essi, in riferimento all'Occidente industrializzato,
individuano nel campo delle prestazioni assistenziali, sociali e
sanitarie, l'"Eldorado del terzo millennio", il "core business"
della nuova impresa, prevedendo, nel lungo termine, incrementi di
redditività enormi, con punte pari al 200/300% del capitale investito,
soprattutto per quei sistemi-paese, come il nostro, in cui le strategie
di mercato puntano direttamente a sostituire "integralmente" lo Stato
con l'impresa capitalistica anche nella gestione economica e politica
delle sue ultime prerogative, ovvero il sostegno e la promozione della
vita, della salute, della giustizia, dei lavoro, dei diritti.
In
un contesto simile, I tre "regimi paralleli/convergenti" si prestano ad
essere valutati e adottati in ragione della loro maggiore o minore
adeguatezza alle dimensioni, alle risorse e agli obiettivi economici dei
differenti operatori del settore. E infatti, l'iscrizione al "registro
degli enti del terzo settore" non è obbligatoria.
Questi
risultano essere non più distinti in Onlus, enti di promozione sociale,
enti filantropici, fondazioni bancarie... bensì, tranne le
"associazioni di volontariato" e le "cooperative sociali" (le quali
permangono ma in forma di "crisalidi" essendo destinate a mutarsi in
imprese sociali) confluiscono tutti nell'unica categoria degli "Ets" (enti del terzo settore).
Cosicché,
quegli "Ets privati", caratterizzati da professionalità specifiche e
bassi margini di profitto, che, nel perseguire, come gli altri "finalità
civiche, solidaristiche di utilità sociale" gestiscono già da tempo, in
forma diretta, l'assistenza in ambiti di nicchia (disabilità,
marginalità sociale, dispersione scolastica, integrazione
interculturale, servizi domiciliari a bassa soglia...) assumendosi
l'onere e la responsabilità di erogare, in sostituzione del pubblico, i
"Lea" ("livelli essenziali di assistenza"), se vorranno continuare a
fruire del regime fiscale di vantaggio riservato a chi opera "senza
scopi di lucro" dovranno
"svolgere attività o a titolo gratuito o a prezzo inferiore rispetto ai tetti di spesa fissati dalle convenzioni".
Certo,
saranno costretti pur sempre ad applicare i Ccnl, (non necessariamente
quelli di settore...) e a garantire il rispetto degli "standard di qualità" (autodefiniti e sottoposti a forme di auto-vigilanza...) ma potranno consolarsi con la conferma dell'"affidamento diretto e "in via prioritaria" del trasporto sanitario d'emergenza/urgenza" e, soprattutto, con l'ampliamento delle proprie prerogative istituzionali, specializzandosi nel "trattamento" dei "lavoratori svantaggiati e dei disoccupati di lungo corso" e divenendo, in questo modo, contenitori sostitutivi dei vecchi ammortizzatori sociali.
E'
al grosso dei commensali invitati al banchetto, vale a dire i grandi
consorzi di cooperative sociali (i quali coprono circa il 70% del
mercato) però, che la Riforma strizza l'occhiolino!
Gli "Ets
cooperativi" gestiscono servizi a rilevanza generale (assistenza agli
anziani, servizi residenziali ad alta soglia...) hanno dimensioni
strutturali enormi, asset finanziari da multinazionali e potere
politico. Si può scommettere che saranno principalmente questi ultimi a
spartirsi la fetta più ingente e succulenta della torta!.
Il 2° Decreto attuativo, infatti, composto di 21 articoli è riservato all'"impresa sociale".
Non
si tratta di una novità assoluta. L'impresa, formalmente, opera da
tempo in ambito socio-assistenziale e sanitario come nel settore
generico dei servizi alla persona, solo che, nel primo caso, tale forma
giuridica non ha registrato, fino a ieri, particolare successo.
Oggi, però, la musica è cambiata.
Lo Stato...oggi... dichiara... con una sua legge... che non è più in grado di sopravvivere ed operare, "in nessuna delle sue funzioni pubbliche" senza
il supporto (in partnership paritaria) dell'impresa, della finanza
privata, del capitale. capitale che il "pubblico" si impegna per legge a
remunerare.
Tale "passaggio formale di consegne" avviene con la previsione di una ricca "dote":
Ieri...
se un'impresa operava in ambito sociale, non poteva giovarsi della
legislazione fiscale/tributaria immensamente favorevole riservata agli
enti no profit.
Oggi, con la riforma, l'impresa sociale, in qualità di Ets, gode dell'identico trattamento di favore, in termini fiscali/tributari, in precedenza, appannaggio storico dei suoi competitors.
Oggi... l'impresa ha la possibilità di raccogliere sul mercato finanziario "capitali a rischio",
investirli nel terzo settore, giovarsi di un regime tributario di
favore, destinando una parte degli utili al conseguimento dell'oggetto
sociale e distribuendo la quota restante fra gli azionisti.
Oggi, l'impresa "ha diritto", in caso di difficoltà oggettive, alla "restituzione integrale del capitale impiegato (per giunta rivalutato) da parte dello Stato".
Ieri,
il rapporto numerico fra personale dipendente e operatori volontari era
di 2 a. Oggi è di 1 a 1 (cioè, un'impresa sociale che conti su una
forza lavoro pari a 100 addetti potrà utilizzarne 50 in qualità di
volontari e 50 in qualità di lavoratori.
Ieri, i lavoratori
dell'impresa sociale avevano diritto ad una retribuzione non inferiore
ai minimi salariali definiti dai ccnl di settore. Oggi... il riferimento
è "qualsiasi, generico ccnl"
Ieri, i lavoratori dell'impresa
sociale avevano diritto "all'informazione e alla consultazione". Oggi, è
l'impresa sociale a decidere se "informare o consultare" i lavoratori
(Se poi... si tratta di un ente religioso che "faccia impresa" non ha
nemmeno questo onere.)
Come risulta evidente da questa breve e
sommaria disamina, l'intero mondo del cooperativismo sociale sarà
incentivato a mutare forma (appunto... divenendo da bruchi... farfalle),
anche per aggirare i vincoli statutari, e ad assumere quella,
enormemente più conveniente dell'"impresa".
Così come tutti gli
altri agenti economici, finora attivi in altri ambiti totalmente
differenti, saranno attratti dalle ingenti prospettive di profitto a
diversificare i propri asset e a scendere direttamente in campo, in un
settore caratterizzato da un'alta redditività e per giunta garantita
finanziariamente, in misura diretta, dallo stato, e dai costi di
produzione nettamente inferiori rispetto a quelli tipici dei settori
tradizionali.
Il quadro non poteva che essere completato tramite
l'utilizzo della tradizionale "cornice istituzionale italiana", ovvero
la creazione di Organismi bilaterali centrali (Fondazione italia
Sociale" e periferici (CSV , centri servizi volontariato) ai cui ricchi
abbeveratoi potranno transumare in assoluta tranquillità le enorme e
costose truppe cammellate e clientelari arruolate durante il lungo
percorso di articolazione della riforma.
E i sindacati?
Cgil,
Cisl e Uil hanno elaborato un documento congiunto in cui, dopo aver
dichiarato "apprezzamento per gli importanti aspetti innovativi...
segnalano la presenza di... "alcune"...
criticità... e avanzano alcune riserve, prima fra tutte... la totale
assenza degli organismi intermedi sindacali dal quadro istituzionale di
"cogestione" del terzo settore.
Anche qui... si può scommettere tranquillamente. Risolto quest'ultimo aspetto... tutti gli altri verranno meno.
Marco Lentini
Il Sindacato è un'altra cosa- opposizione Cgil - Torino
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