giovedì 22 giugno 2017

RIFORMA DEL TERZO SETTORE: FINE DEL WELFARE STATE E AVVENTO DEL WELFARE MARKET



"Ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla". Ma è sempre così?
Chiunque pensi di essere titolare di diritti sociali esigibili, garantiti dalla Costituzione e tutelati dallo Stato, molto presto, dovrà ricredersi. 
Con l'approvazione dei primi decreti attuativi delle linee guida disposte dalla Legge delega n.106 del 2016 si sancisce, ufficialmente, il confinamento dello "Stato sociale" in un'area di residualità e la sua progressiva sostituzione con il modello,di matrice anglosassone, del "welfare market".
Le ragioni, condivise dalle forze politiche, economiche, sociali e culturali che hanno promosso la riforma sono semplici, chiare e univoche. 
Come precisato dal ministro Poletti e dal sottosegretario al Lavoro Bobba "L'ordinamento pubblico, in tutte le sue articolazioni territoriali ed istituzionali, non può più occuparsi in regime di titolarità esclusiva e nemmeno primaria, di assistenza, istruzione, salute, sostegno all'occupazione... semplicemente perché non ha, in autonomia, la disponibilità delle risorse economiche e finanziarie indispensabili per farlo". [...]
Non potendo finanziare gli interventi usando la leva del debito e risultando insufficienti le tradizionali misure di natura fiscale (agevolazioni tributarie in primis) disposte a favore dell'universo "no profit", l'unica via percorribile risulta essere: 
"attrarre capitali abbassando ogni possibile barriera all'impresa", ovvero... puntare tutto sull'edificazione della cosiddetta "terza colonna" del settore: il "for profit".
"Privatizzare il sociale... significa guadagnare, nel breve periodo il 10% di spesa sociale in termini di innovazione ed efficienza... contribuire al risanamento dei conti pubblici e al rilancio competitivo del sistema-paese attraverso un raffreddamento delle dinamiche salariali... nonché adeguare le esigenze degli utenti alle necessità del mercato, realizzando, anche in ambito sociale e sanitario, le indispensabili economie di scala...[...]
L'Art 55 del TU, a buon titolo, può essere considerata, la chiave di volta su cui sarà eretto il nuovo sistema. Esso prevede, niente di meno che...
"il coinvolgimento in forma di partenariato dei soggetti privati (enti no profit e imprese) nella programmazione (e nella gestione) di TUTTE le FUNZIONI PUBBLICHE            (sanità, assistenza, istruzione, formazione, lavoro, e, se le parole hanno un senso preciso... anche la giustizia, la sicurezza, l'ordine pubblico...)  
Ciò non avviene modificando formalmente l'ordinamento giuridico costituzionale né quello civile (strada impervia e politicamente rischiosa,come insegna il referendum del 4 dicembre 2016) bensì instaurando una sorta di percorso normativo triadico... cioè affiancando al Codice Civile e a quello sugli Appalti il nuovo "Testo Unico sul III settore". 
In questo modo, lasciando formalmente inalterato il quadro gerarchico delle fonti e, allo stesso tempo, regolamentando parte rilevante della disciplina di dettaglio tramite il ricorso ad "atti normativi non legislativi", in quanto tali, svincolati da ogni istanza di controllo parlamentare (emblematici i due temi relativi all"aggiornamento dell'elenco delle attività dell'impresa sociale" e alla definizione del tema dell "partecipazione dei lavoratori" alla gestione dell'impresa) si finisce per 
"innestare sul tronco vecchio quel ramo nuovo" che, progressivamente, muterà' l'intera pianta. 
E si tratta di una pianta molto ambita perché promette di portare frutti rigogliosi! Il "terzo settore", infatti, secondo quanto riportato dai dati Istat del 2011, movimenta fra i 60 e i 70 miliardi di euro all'anno (6-7% del PIL.), occupa, fra volontari (500.000), lavoratori dipendenti (700.000), collaboratori (300.000), circa 1 milione e mezzo di addetti. 

I dati prodotti dagli analisti finanziari internazionali parlano chiaro; essi, in riferimento all'Occidente industrializzato, individuano nel campo delle prestazioni assistenziali, sociali e sanitarie, l'"Eldorado del terzo millennio", il "core business" della nuova impresa, prevedendo, nel lungo termine, incrementi di redditività enormi, con punte pari al 200/300% del capitale investito, soprattutto per quei sistemi-paese, come il nostro, in cui le strategie di mercato puntano direttamente a sostituire "integralmente" lo Stato con l'impresa capitalistica anche nella gestione economica e politica delle sue ultime prerogative, ovvero il sostegno e la promozione della vita, della salute, della giustizia, dei lavoro, dei diritti.  
In un contesto simile, I tre "regimi paralleli/convergenti" si prestano ad essere valutati e adottati in ragione della loro maggiore o minore adeguatezza alle dimensioni, alle risorse e agli obiettivi economici dei differenti operatori del settore. E infatti, l'iscrizione al "registro degli enti del terzo settore" non è obbligatoria.
Questi risultano essere non più distinti in Onlus, enti di promozione sociale, enti filantropici, fondazioni bancarie... bensì, tranne le "associazioni di volontariato" e le "cooperative sociali" (le quali permangono ma in forma di "crisalidi" essendo destinate a mutarsi in imprese sociali) confluiscono tutti nell'unica categoria degli "Ets" (enti del terzo settore).
Cosicché, quegli "Ets privati", caratterizzati da professionalità specifiche e bassi margini di profitto, che, nel perseguire, come gli altri "finalità civiche, solidaristiche di utilità sociale" gestiscono già da tempo, in forma diretta, l'assistenza in ambiti di nicchia (disabilità, marginalità sociale, dispersione scolastica, integrazione interculturale, servizi domiciliari a bassa soglia...) assumendosi l'onere e la responsabilità di erogare, in sostituzione del pubblico, i "Lea" ("livelli essenziali di assistenza"), se vorranno continuare a fruire del regime fiscale di vantaggio riservato a chi opera "senza scopi di lucro" dovranno 
"svolgere attività o a titolo gratuito o a prezzo inferiore rispetto ai tetti di spesa fissati dalle convenzioni". 
Certo, saranno costretti pur sempre ad applicare i Ccnl, (non necessariamente quelli di settore...) e a garantire il rispetto degli "standard di qualità" (autodefiniti e sottoposti a forme di auto-vigilanza...) ma potranno consolarsi con la conferma dell'"affidamento diretto e "in via prioritaria" del trasporto sanitario d'emergenza/urgenza" e, soprattutto, con l'ampliamento delle proprie prerogative istituzionali, specializzandosi nel "trattamento" dei "lavoratori svantaggiati e dei disoccupati di lungo corso" e divenendo, in questo modo, contenitori sostitutivi dei vecchi ammortizzatori sociali.
E' al grosso dei commensali invitati al banchetto, vale a dire i grandi consorzi di cooperative sociali (i quali coprono circa il 70% del mercato)  però, che la Riforma strizza l'occhiolino! 
Gli "Ets cooperativi" gestiscono servizi a rilevanza generale (assistenza agli anziani, servizi residenziali ad alta soglia...) hanno dimensioni strutturali enormi, asset finanziari da multinazionali e potere politico. Si può scommettere che saranno principalmente questi ultimi a spartirsi la fetta più ingente e succulenta della torta!.
Il 2° Decreto attuativo, infatti, composto di 21 articoli è riservato all'"impresa sociale".
Non si tratta di una novità assoluta. L'impresa, formalmente, opera da tempo in ambito socio-assistenziale e sanitario come nel settore generico dei servizi alla persona, solo che, nel primo caso, tale forma giuridica non ha registrato, fino a ieri, particolare successo.
Oggi, però, la musica è cambiata. 
Lo Stato...oggi... dichiara... con una sua legge... che non è più in grado di sopravvivere ed operare, "in nessuna delle sue funzioni pubbliche" senza il supporto (in partnership paritaria) dell'impresa, della finanza privata, del capitale. capitale che il "pubblico" si impegna per legge a remunerare.
Tale "passaggio formale di consegne" avviene con la previsione di una ricca "dote":
Ieri... se un'impresa operava in ambito sociale, non poteva giovarsi della legislazione fiscale/tributaria immensamente favorevole riservata agli enti no profit. 
Oggi, con la riforma, l'impresa sociale, in qualità di Ets, gode dell'identico trattamento di favore, in termini fiscali/tributari, in precedenza, appannaggio storico dei suoi competitors.
Oggi... l'impresa ha la possibilità di raccogliere sul mercato finanziario "capitali a rischio", investirli nel terzo settore, giovarsi di un regime tributario di favore, destinando una parte degli utili al conseguimento dell'oggetto sociale e distribuendo la quota restante fra gli azionisti.
Oggi, l'impresa "ha diritto", in caso di difficoltà oggettive, alla "restituzione integrale del capitale impiegato (per giunta rivalutato) da parte dello Stato".
Ieri, il rapporto numerico fra personale dipendente e operatori volontari era di 2 a. Oggi è di 1 a 1 (cioè, un'impresa sociale che conti su una forza lavoro pari a 100 addetti potrà utilizzarne 50 in qualità di volontari e 50 in qualità di lavoratori.
Ieri, i lavoratori dell'impresa sociale avevano diritto ad una retribuzione non inferiore ai minimi salariali definiti dai ccnl di settore. Oggi... il riferimento è "qualsiasi, generico ccnl"
Ieri, i lavoratori dell'impresa sociale avevano diritto "all'informazione e alla consultazione". Oggi, è l'impresa sociale a decidere se "informare o consultare" i lavoratori (Se poi... si tratta di un ente religioso che "faccia impresa" non ha nemmeno questo onere.)
Come risulta evidente da questa breve e sommaria disamina, l'intero mondo del cooperativismo sociale sarà incentivato a mutare forma (appunto... divenendo da bruchi... farfalle), anche per aggirare i vincoli statutari, e ad assumere quella, enormemente più conveniente dell'"impresa". 
Così come tutti gli altri agenti economici, finora attivi in altri ambiti totalmente differenti, saranno attratti dalle ingenti prospettive di profitto a diversificare i propri asset e a scendere direttamente in campo, in un settore caratterizzato da un'alta redditività e per giunta garantita finanziariamente, in misura diretta, dallo stato, e dai costi di produzione nettamente inferiori rispetto a quelli tipici dei settori tradizionali.
Il quadro non poteva che essere completato tramite l'utilizzo della tradizionale "cornice istituzionale italiana", ovvero la creazione di Organismi bilaterali centrali (Fondazione italia Sociale" e periferici (CSV , centri servizi volontariato) ai cui ricchi abbeveratoi potranno transumare in assoluta tranquillità le enorme e costose truppe cammellate e clientelari arruolate durante il lungo percorso di articolazione della riforma.
E i sindacati?
Cgil, Cisl e Uil hanno elaborato un documento congiunto in cui, dopo aver dichiarato "apprezzamento per gli importanti aspetti innovativi... 
segnalano la presenza di... "alcune"... criticità... e avanzano alcune riserve, prima fra tutte... la totale assenza degli organismi intermedi sindacali dal quadro istituzionale di "cogestione" del terzo settore.
Anche qui... si può scommettere tranquillamente. Risolto quest'ultimo aspetto... tutti gli altri verranno meno.

Marco Lentini
Il Sindacato è un'altra cosa- opposizione Cgil - Torino

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